Ho avuto la fortuna, il privilegio direi, di incontrare Elisabetta nel pieno della sua attività di ballerina internazionale, quando, diciamo, era davvero “la Terabust”, ma se penso alla prima volta che ho avuto nozione della sua persona, mi ritorna in mente una foto vista casualmente su un quotidiano: Terabust con Nureyev alla prima di Giselle a Venezia, la celebre foto del primo atto in cui, tenendogli le mani, lei si protende tutta amorosa verso di lui che, volgendosi di lato, ha quell’espressione irresistibile di tricheur fascinosissimo e spregiudicato.
Era il ’78, inutile dire che in quella foto aleggia fortissima anche la presenza di Poliakov.
Ha inizio, negli anni a venire, un intreccio di incontri disseminati tra Roma, Londra, Reggio Emilia. Spettacoli indimenticabili, serate di grande divertimento conviviale, amicizie comuni. Momenti che mi hanno permesso di conoscere la persona Terabust, il suo carattere composito: la diva internazionale (amatissima in Inghilterra) e la donna sagace, generosa e concreta. Ma è principalmente a Reggio Emilia, nei primissimi anni ‘80 con Aterballetto, che ho avuto modo di frequentarla in modo più diretto, forse perché, dividendo con lei la scena, ho potuto osservare la grandezza dell’artista.
Sono subito stato conquistato da un aspetto del suo carattere, la sua determinazione, il suo modo risoluto di non indietreggiare mai rispetto a quelle che erano le sue convinzioni, i suoi princìpi. Ma credo che questa sua determinazione sia andata scemando o quanto meno ammorbidendosi, dal momento in cui è uscita di scena per l’ultima volta.
Danzare, la vita di teatro e di compagnia, con la classe, le prove e la scena erano elementi fondamentali della sua esistenza, avevano regolato la sua vita da sempre; il suo tenore fisico, mentale era tutto riferito e direi riassunto nella sua immagine di ballerina, di interprete.
Quando tutto questo è finito è come se le si fosse rivelata un’altra persona con cui confrontarsi e con cui condividere un’altra esistenza. Ho assistito in prima persona a questo passaggio cruciale e penso che Elisabetta non abbia mai risolto ed elaborato completamente questo distacco.
E per quanto abbia messo tantissima intensità nel suo successivo ruolo di direttrice, fondato sugli stessi princìpi, certo, io non riuscivo a ritrovare la Terabust che avevo conosciuto.
Per cercare di spiegare meglio ciò che intendo, devo ritornare con la memoria a un balletto con cui l’ho sempre poi identificata: Sphinx. Pezzo forse oggi datato che sottopone i tre interpreti a 23 minuti di densità psicofisica che non ha eguali nella produzione coreografica di Glen Tetley che ha innestato tutto il suo background modern (soprattutto Graham) sull’estetica classico/accademica, creando un tale cortocircuito stilistico da rendere le sue coreografie adatte a pochi interpreti di sola formazione accademica.
Il lavoro con Glen la segnerà profondamente: ho rivisto questo balletto negli anni con interpreti strepitose, ma nessuna a mio parere ha raggiunto l’intensità e la maturità di Terabust nel ruolo della Sfinge. La sua interpretazione era quasi spaventosa per la straordinarietà della trasfigurazione. Il suo sguardo magnetico e insopportabile insieme, nella sua Sfinge Elisabetta si muoveva come alla ricerca di uno stato sconosciuto, altro, come superiore. Un coinvolgimento fisico totale e senza precedenti per una ballerina classica. E mi piace credere che sia in questa interpretazione che risieda la vera natura di Elisabetta: puro istinto magistralmente diretto al superamento del limite sempre, a costo anche di addentrarsi in territori alieni, cadere, fallire anche; in altre parole la sfida continua, senza soluzione di continuità, ma che mirava sempre a un raggiungimento preciso.
E’ ancora a Reggio Emilia, anni dopo, che il nostro rapporto ha una svolta.
Durante il Festival Forsythe 1989, Elisabetta danza Steptext in una serata con il Balletto di Francoforte. A cena dopo lo spettacolo, mi sono accorto che fumando una delle sue numerose sigarette mi scrutava insistentemente. Improvvisamente mi guarda dritto negli occhi, afferrandomi il braccio e mi chiede di essere il suo assistente alla Scuola di danza dell’Opera di Roma dove è stata invitata a prendere la direzione da Bruno Cagli.
E saranno anni straordinari, durissimi, ma anche di grandi risate e soddisfazioni.
La formazione di Terabust era stata di imprinting Cecchettiano (Battaggi/Radice), ma già negli anni dell’Opera di Roma, era venuta a contatto con altri moduli estetici e stilistici, penso al lavoro fatto con Bruhn e Milloss ad esempio, attraverso i quali apprende rispettivamente i princìpi della scuola danese e della lezione di Laban, Joss e della danza espressionista tedesca. Ma è a Londra e nel lavoro fatto con il London Festival Ballet che Elisabetta si rende conto che quanto fatto fino ad allora è solo una minima parte, per di più polverosa, del lavoro e della preparazione di una interprete internazionale.
A Londra vengono totalmente rivoluzionate le sue certezze, più volte mi raccontava di quanto si sentisse inadeguata, ma allo stesso tempo rapita nella sua frenesia di migliorarsi, di conoscere nuove modalità, di sperimentare. E non sarebbe potuta essere in luogo migliore, il LFB accoglie il top della danza internazionale: negli anni viene a contatto con grandi personaggi che segneranno in modo decisivo il suo percorso.
Innanzitutto Nureyev, attraverso la partnership con Rudolph apprende il rigore quasi maniacale dell’esecuzione, Nureyev che nel suo costrutto coreografico innesta un mix micidiale di dinamiche a volte avverse e in apparente conflitto con i tempi musicali.
E poi il lavoro con Betty Anderton, la sua coach prediletta, con i maestri Johnny Eliasen, Truman Finney, Kevin Hagen e lo stesso Peter Schaufuss. Tutti provenienti o quantomeno discendenti da Stanley Williams.
La preoccupazione maggiore era di trovare un’unitarietà didattica che rispecchiasse la sua visione estetica, innanzitutto, ma che coniugasse anche la tradizione con la nuova visione a cui lei stessa si era sottoposta negli anni londinesi. Con delle specificità: l’uso dei piedi tutto concentrato tra l’aderenza e la pressione al pavimento e la conseguente iperestensione quasi esagerata in aria durante il salto, l’uso della schiena quasi sempre in torsione e in opposizione rispetto al lavoro delle gambe che dovevano a loro volta essere sempre in overcross: princìpi che aveva sperimentato su se stessa, lavorando con Glen Tetley, Ma su questo impianto non intendeva rinunciare al lavoro di épaulement proprio della tecnica Vaganova, con la profusione del port de bras che la scuola americana, secondo il suo parere, tralasciava.
Ricordo che considerava la scuola cubana la più vicina a questa sua idea.
Per quanto riguarda poi il contemporaneo, non ebbe dubbi sulla mia proposta di proporre lo studio della danza non classica sin dal secondo corso, cosa che facemmo per circa un triennio e che coinvolgeva i piccoli allievi nello studio dei princìpi delle tecniche modern, così come a sessioni di improvvisazione/composizione e momenti di studio e analisi della coreografia del ‘900 con filmati, ricerche dedicate e dibattiti.
La sua propensione al nuovo e in un certo senso alla sperimentazione ha permesso di dotare la Scuola dell’Opera di una metodologia di lavoro del tutto inedita, che lei stessa immetteva nel lavoro dei vari insegnanti con incontri dedicati. Questo si è poi trasferito nel lavoro di direzione non solo più della scuola, ma anche dei corpi di ballo, a Roma innanzitutto, dove la direzione di scuola e corpo di ballo avrebbe dato dei risultati clamorosi, e in seguito alla Scala, dove abbiamo insieme creato “Progetto Contemporaneo”. Esempio unico nel panorama dei teatri lirici italiani di un gruppo di danzatori dedicato esclusivamente al lavoro sul segno contemporaneo, con tre spettacoli firmati da tre coreografi contemporanei italiani, progetto che inaugurava il suo insediamento come Direttrice del Corpo di ballo della Scala e che esprimeva in pieno la visione di Elisabetta Terabust sul rapporto tradizione/contemporaneità.
Che era poi esattamente la stessa visione di Poliakov, anche lui vicino a Nureyev, anche lui profondamente legato alla tradizione, ma con un punto di vista di apertura totale alla contemporaneità, all’alleggerimento della densità del repertorio storico in un’estetica rivista e rinnovata.
Credo che entrambi abbiano avuto un ruolo fondamentale per l’attualizzazione della danza in Italia, entrambi erano capaci di rischiare, aprire al nuovo pur essendo quasi fanaticamente custodi della tradizione.
E ricordo, così come ho avuto la fortuna di frequentarli e di lavorare con loro, che le differenze di principio erano minime, da entrambi ho sempre avuto totale comprensione e condivisione.
Forse, se vi erano differenze, erano tutte nelle metodologie di lavoro o (e lo dico simpaticamente) nel modo di affrontare le difficoltà: Elisabetta era un coacervo di tensioni e nervosismi che non si placavano mai, Poliakov era serafico, procedeva con rilassatezza e agio invidiabili; non a caso uno dei suoi imperativi più usati era “alleggerisci” sia che si trattasse di un virtuosismo tecnico o di un impedimento di qualsiasi genere. Mentre per Elisabetta il motto era “organizzati”.
Il lavoro di direzione di Terabust e Poliakov, pur con tutti i limiti imposti dal “sistema” dei teatri dove hanno operato, sono stati a mio parere dei punti di svolta epocali nella organizzazione delle compagnie di danza delle Fondazioni Liriche. Entrambi, attraverso la loro Direzione Artistica, hanno impresso un segno estetico inedito, unito a una pratica raffinatissima e altamente professionale della danza, insomma finalmente un modo di intendere il lavoro del danzatore allineato allo standard internazionale.
Massimo Moricone
international choreographer