Ho conosciuto Eugenio (così ho imparato a chiamarlo da diversi amici comuni del Comunale) nel 1991, quando Massimo Bogianckino mi chiamò proponendomi di lavorare con lui a un progetto di teatro-danza legato alle celebrazioni per i 500 anni dalla morte di Lorenzo il Magnifico. Cominciammo a ragionare sul da farsi insieme a Mauro Conti, che era incaricato della drammaturgia, e rapidamente, perché il tempo era poco, arrivammo ad imbastire una serie di materiali testuali e musicali, sui quali Eugenio avrebbe dovuto mettersi al lavoro. Ricordo bene che quando gli portai parecchie pagine di partitura per provare ad illustargliele, lui le sfogliò con grande cura ed attenzione, le riprese in mano tutte insieme. e le portò accanto ad un orecchio, poi all’altro, e infine, recitando un po’, con un faccia fintamente triste, diceva: “non si sente niente!…” Era molto preoccupato, perché non sapeva bene che farsene di spiegazioni e descrizioni sul come la musica sarebbe stata: voleva sentirla e basta, perché solo da lì poteva partire. La sua danza e il suo spettacolo dovevano nascere dalla musica e per la musica, e questo – l’ho imparato poi a mie spese nel corso di altre esperienze con la danza – non è così scontato per un coreografo. Poi, non appena, per far fronte all’impazienza di Eugenio, il Maestro Andrea Severi si era messo al lavoro per trasformare il mio manoscritto in un file audio che potesse essere ascoltato, tutto s’interruppe bruscamente perché, come spesso accade in simili circostanze, vennero meno i finanziamenti speciali per le celebrazioni e il progetto saltò.
Ma siccome Bogianckino era una persona che teneva in conto la parola data, volle dare una nuova possibilità a me e ad Eugenio, che in quei pochi mesi di lavoro avevamo capito di avere qualcosa in comune. Che cosa? Direi che entrambi eravamo animati dalla stessa disponibilità a cercare il nuovo senza fare a meno, però, del respiro profondo della storia. Trovavo nel linguaggio coreografico di Eugenio quello stesso equilibrio tra ricerca e tradizione che in quel periodo andavo faticosamente cercando per il mio stile musicale. Questa volta fu Eugenio a scegliere l’argomento del nuovo spettacolo che avremmo dovuto fare: il Girotondo di Schnitzler, o meglio La Ronde, come volle subito intitolarlo, affascinato dalla celebre versione cinematografica di Max Ophüls. Ma questa non era più che una suggestione: in realtà, aveva in mente un suo spettacolo molto originale, diverso da tutte le altre versioni del capolavoro schnitzleriano viste fino ad allora. Alle dieci scene di coppia che si susseguono nel lavoro originale, interpretate da solisti della compagnia di MaggioDanza, si sarebbero alternati dieci quadri d’insieme, protagonista la compagnia tutta. Era non solo un’alternanza tra “solisti e coro”, ma soprattutto un contrasto voluto, ricercato e persistente tra la rappresentazione dell’impulso vitale dell’Eros e la messa in scena di sotterranee figure umane ridotte a fantasmi, larve striscianti impegnate in macabre danze collettive. Alla musica chiedeva di sottolineare la lotta incessante tra questi due mondi, e questo cercai di ottenere introducendo negli episodi corali una leggera elaborazione elettronica del suono degli strumenti, insieme all’adozione di una scrittura decisamente più moderna rispetto a quella degli episodi solistici. Il risultato alla fine dovette essere buono, se lo spettacolo ebbe un notevole successo e fu ripreso più volte dal Teatro. Oggi, con un triste senno di poi, si può dire sia stato il suo testamento spirituale, quanto mai sofferto e vissuto in prima persona, da uomo buono, intelligente e sensibile qual era e come difficilmente è dato incontrare. Non mi resi ben conto di questo, all’epoca: Eugenio ci diceva – e lo scrisse anche nella presentazione – che la dedica era ai suoi amici che aveva visto andarsene, portati via dal male terribile dell’Aids. Ma era troppo riservato per mostrare a tutti il presentimento, che certamente doveva avere, di essere destinato a raggiungere presto tutti i suoi amici. Il pensiero di aver accompagnato una persona di così alta qualità in un momento così importante della sua vita è un sentimento che mi commuove sempre nel profondo e che mi porta a considerare questa esperienza come una delle più significative della mia vita.
Arrivederci Eugenio, e speriamo di ritrovarci in un mondo dove le nostre anime s’incontrino più serene di quanto abbiamo voluto rappresentarle noi.
Matteo D’Amico