Eugenio Polyakov aveva paura di volare.
Benché giocasse spesso sul fatto di avere il fisico di un airone e le braccia lunghe di un albatros ed avesse un cagnolino che aveva chiamato, non a caso, Chaika (gabbiano) ed avesse trascorso buona parte dell’infanzia a rincorrere aquiloni nel parco Gorki della sua Mosca, nutriva una profonda avversione per i viaggi in aereo.
Forse fu per questa fobia che non andò mai negli Stati Uniti, come sarebbe stato obbligato a fare dal visto di espatrio dalla Russia.
Visse infatti i suoi primi anni in Italia senza permesso di soggiorno e con l’incubo di essere scoperto dalla nostra polizia perché sprovvisto di documenti. La sua paura di volare credo si possa addebitare al fatto che da giovanissimo fu costretto dalle autorità sovietiche a lasciare il suo teatro, il Bol’šoj, la sua città, Mosca, e la madre che amava moltissimo, per andare a vivere e lavorare in un posto lontanissimo, raggiungibile solo dagli aerei, come la Siberia. Credo che questa lontananza dagli affetti abbia segnato in modo indelebile la sua vita. Spesso soleva dirmi che da quando viveva in Italia era molto più vicino alla madre a Mosca (credo tre fusi orari) di quando abitava in Siberia (otto fusi orari). In effetti non amava molto spostarsi; non credo avesse la patente di guida e ripensandoci non me lo rammento che a piedi, con le scarpe enormi di gomma, il giubbetto da marinaio di panno blu, il cappellino alla Lenin nero e un’eterna sciarpa rossa al collo. Ho descritto, mi accorgo, un vestiario invernale, ma non credo che per lui facesse molta differenza; è strano, ma non riesco a ricordarlo in “divisa estiva”.
Eugenio aveva inventato un modo tutto personale per esorcizzare la paura di volare. Costruiva continuamente degli aeroplanini con qualsiasi foglio di carta gli capitasse fra le mani. (Questa sua mania in qualche modo ci accomunava, in quanto anch’io mi diverto a costruire allo stesso modo piccolissime fisarmoniche). Col tempo trovò anche il modo (solo con me) di utilizzare questa sua mania. Spesso quando passava da casa mia e non mi trovava, mi lasciava un messaggio “volante”. Trovare sulla finestra uno dei suoi aeroplanini era per me il segnale del passaggio. E l’idea cominciò a piacergli molto.
In un’epoca ancora lontana dai telefonini e in una città senza traffico come Venezia, quel foglio di carta svolazzante era il suo messaggero alato.
Si dilettava anche a suonare il pianoforte, in quanto in tutte le sale ballo del mondo esiste un pianoforte. Ed in verità potrei fare i nomi di tantissimi coreografi e ballerini che non sanno vincere la tentazione di giocare con i tasti quando le prove sono terminate e sono sicuri di non essere visti.
Ma a Venezia era impossibile fare le cose di nascosto: chiunque si trovava a passare nelle vicinanze, e non solo, del Teatro La Fenice non poteva non sentire cosa suonava l’orchestra, quale opera stesse provando il coro o quale balletto danzassero i ballerini. Per sapere chi stesse provando in sala ballo era sufficiente farsi un giretto dalle parti del Teatro. La Valse di Ravel o Lo spettro della rosa, o il “pas de deux” di Giselle e così via. Non era necessario guardare l’ordine del giorno: la ripetizione, a volte ossessiva, di un pezzo ti faceva immediatamente capire quale ballerino stesse soffrendo le pene dell’inferno sotto le grinfie di Polyakov. Ma a volte, specie a tarda sera, la musica non era riconducibile a qualche affannato assolo di un ballerino; la malinconia della musica ed il tocco incerto ti facevano immediatamente capire che quel tentativo di suonare Eric Satie non poteva non essere riconducibile che allo stesso Polyakov.
Dopo molti anni rividi Eugenio Polyakov a Parigi, dove lui era Maître de ballet all’Opéra, mentre io tenevo lezioni alla Sorbona, invitata per il gemellaggio con l’Università di Bologna in occasione delle celebrazioni per i novecento anni dei due atenei.
Non avevamo un vero e proprio appuntamento, sapevo che era all’Opéra e lo chiamai per poterci vedere. Erano gli ultimi giorni di un freddissimo novembre e già si respirava appieno l’atmosfera natalizia. Gli Champs-Elysées erano un enorme tunnel luminoso ed era quasi impossibile sedersi al tavolino di un locale senza essere costretti a delle contorsioni o ad urlare per farsi sentire.
Scelsi di vederlo dalle parti di Montparnasse dove alloggiavo e dove certe viuzze mi ricordavano Venezia. Attesi a lungo nel freddo tramonto parigino. Stavo quasi convincendomi che non lo avrei rivisto, quando la sciarpa rossa, il jeans a tubo, il cappellino nero e l’andatura da ballerino en dehors mi risvegliarono mille ricordi.
Non parlammo né dei vecchi tempi, come si usa fare in questi casi, né dei nostri programmi futuri, che anche è cosa usuale fra gli artisti.
Onestamente non ricordo di che parlammo, forse di nulla.
Ricordo che d’improvviso fu buio e lui si alzò per salutarmi, mi baciò, mi strinse al petto e si avviò per dove era venuto; non feci neanche in tempo ad alzarmi in piedi. Fatti pochi passi si voltò, frugò nel giaccone di panno, alitò sulla punta di un foglio ripiegato e, bianco come un fiocco di neve, cominciò a planare nell’aria un aeroplanino.
Scattai in piedi per afferrarlo, ma non ci riuscii.
Quando, delusa, mi girai, con l’alzata di spalle solita, che era sempre stata la mia maniera di scusarmi con lui per non essere riuscita in qualcosa, Eugenio era sparito.
Da quella volta non lo rividi più.
Sarò una sciocca, ma a volte penso che se fossi riuscita ad afferrare quell’aeroplanino, lo avrei rivisto ancora.

Maria Grazia Garofoli